In molti si stracciano le vesti per il futuro delle Pmi italiane ma pochi indicano soluzioni. In tanti amano utilizzare l’immagine della «rabbia» quando parlano di piccole imprese ma allo stesso tempo si rifiutano di pensare che sia possibile individuare per loro (le Pmi) una specifica politica industriale. È invece questo lo sforzo che andrebbe fatto oggi cercando di individuare non solo in basso, e non solo nell’amministrazione, i soggetti potenziali di questa progettualità. Varrebbe infatti la pena coinvolgere in un’operazione di sistema i grandi capi-filiera italiani. Stiamo parlando di Eni, Enel, Poste, Leonardo, Fincantieri e Ferrovie dello Stato e fortunatamente non partiamo da zero perché ci sono già delle buone pratiche da cui imparare.
Selezione naturale
Ma facciamo un necessario passo indietro: l’emergenza Covid ha sicuramente creato nuove difficoltà dentro le filiere di fornitura dei grandi gruppi, quelli che una volta chiamavamo indotti. Si tratta di imprese di piccole dimensioni sotto i 10 milioni di ricavi, sovente sottocapitalizzate e non sempre dotate di buone risorse manageriali. Questa dispersione di forze e di energie spesso finisce per scaricarsi sull’azienda-madre sotto forma di ritardi nelle consegne, finanziamenti impliciti del circolante, richiesta di aiuti per gli investimenti in macchinari. Non sempre però questa tipo di domanda si incontra con una fiducia reciproca di medio termine, spesso non ci sono le condizioni di una vera partnership. I rischi di questa mancanza diventano gravi specie ovviamente a fronte di choc esterni e la conseguenza diretta è che viene meno il collante che lega le Pmi al capo-filiera. Morale della favola: quella che si genera è una selezione darwiniana, e non governata, dei Piccoli.
«Proprio per evitare questi pericoli — sostiene Roberto Crapelli, managing partner del fondo Industria 4.0/Quadrivio — bisogna replicare anche in Italia esperienze che sono state condotte all’estero, penso all’automotive o all’aerospazio negli States. La grande azienda capofiliera deve puntare a riorganizzare la sua filiera a monte trasformandola da una galassia spesso indistinta a una piramide funzionale ed efficiente». Che cosa vuol dire in concreto? Che la Bmw, per fare un esempio a caso, alla fine di questo processo ha rapporti diretti con solo un piccolo numero di fornitori di primo livello che a loro volta hanno relazione con i fornitori di secondo livello. E via di questo passo. Il risultato alla fine è che la filiera risulta più strutturata e competitiva.
Le esperienze
Di esperienze che cercano di riorganizzare la fornitura, come dicevo, già ne esistono in Italia anche se ognuna ha un suo approccio per cui è difficile operare una somma. Il progetto Leap lanciato da tempo dal gruppo Leonardo ed affidato a Marco Zoff è forse il caso più conosciuto. Partito nel 2018 Leap è concentrato sui fornitori reputati «strategici» che generano un volume d’acquisto per Leonardo pari a circa un miliardo di euro. L’obiettivo è definire un modello di selezione dei partner basato su capacità, performance, competitività, trasparenza, tracciabilità e sostenibilità dei processi.
Fincantieri invece ha costruito Marine Interiors, con sede operativa a Pordenone, che si è assunta il compito di organizzare le produzioni legate agli interni delle navi. Cabine, bagni e sale per un volume di affari di 300 milioni di euro. Guidata da Paolo Candotti, Marine Interiors non vende solo a Fincantieri ma a sua volta riorganizza il secondo livello dei fornitori. Il progetto è stato condiviso fin dall’inizio con la Confindustria locale per organizzare le competenze di territorio e difendere le produzioni italiane.
In campo privato l’esperienza più significativa è quella dell’Ima di Alberto Vacchi. Una rete di 40 Pmi che sono già cresciute e hanno raggiunto, messe assieme, 250 milioni di ricavi e 1.400 addetti. I soggetti sono per lo più localizzati in Emilia e proprio in virtù di queste rete sono in grado di dare risposta in tempi rapidi a forniture di dimensione rilevante. Ima partecipa al loro capitale sociale senza prenderne il controllo ma ovviamente aumenta la capacità contrattuale delle Pmi nei confronti del mondo bancario e in sede di approvvigionamento delle materie prime.
Occasioni capitali
Al di là di una prima ricognizione delle best practise vale la pena sottolineare come in un campione più ampio di filiere emergerebbe sicuramente il ruolo-chiave delle piattaforme 4.0, che legando strettamente i processi produttivi dei capi filiera con quelli dei fornitori realizza una sorta di «cessione di sovranità», quanto meno nella condivisione dei dati. Ma evidentemente si può fare molto di più di quanto raccontato finora. Specie se dovessero scendere in campo le altri grandi capofiliere pubbliche come Eni, Enel, Ferrovie e Poste. Un’operazione di questo tipo non solo dimostrerebbe la possibilità di fare una politica industriale per le Pmi ma potrebbe essere appetibile addirittura per il mercato dei capitali. «Le filiere diventano più forti, non si scuciono e resistono alle acquisizioni — spiega Crapelli — e nello stesso questo processo permette alle case madri, a loro volta, di essere meno vulnerabili perché non hanno più dei semplici fornitori ma dei partner».
Un’ipotesi di lavoro è quella di creare veicoli leggeri che gestiscano fondi dedicati per ciascuna filiera, per attirare investitori dal mercato globale dei capitali, con strategie di investimento finalizzate a capitalizzare e/o finanziare i programmi cosiddetti di riconfigurazione a piramide. «Una singola Pmi, anche se hi-tech non merita l’attenzione dei fondi, una filiera di 400 aziende riorganizzate per livello, è di elevato interesse perché valorizza il capitale tecnologico e imprenditoriale oggi nascosto nella piccola dimensione».
Fonte: Corriere della Sera